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				  STORIA 
				E MOTIVAZIONE DELL’INTERVENTO 
				All’inizio di giugno del 1982 gli 
				israeliani iniziarono l’assedio di Beirut e accerchiarono i 
				15.000 combattenti dell’OLP e dei suoi alleati libanesi e 
				siriani all’interno della città. All’inizio di luglio, il 
				presidente degli USA Ronald Reagan inviò Philip Habib, 
				affiancato da Morris Draper (anch’egli in veste di Inviato 
				speciale per il Medio Oriente del Presidente Ronald Reagan
				nel corso della crisi del Libano), con l’incarico di 
				risolvere la crisi. Cominciarono lunghe ed estenuanti trattative 
				rese assai difficili dal fatto che gli israeliani e gli 
				statunitensi non vollero discutere direttamente con i 
				palestinesi, e questi asserragliati nella città non vollero 
				abbandonarla perché temevano ritorsioni dei soldati israeliani e 
				dei loro alleati falangisti.  
				Habib ottenne faticosamente dal Primo 
				Ministro israeliano Begin l’assicurazione che i suoi 
				soldati non sarebbero entrati a Beirut Ovest e non avrebbero 
				attaccato i palestinesi nei campi profughi; ottenne 
				l’assicurazione dal futuro presidente libanese,
				Bashir 
				Gemayel (Giumayyil, 
				figlio di Pierre Gemayel, uno dei fondatori delle 
				Falangi), che i falangisti non si sarebbero mossi, e infine 
				ottenne l’assicurazione da parte del Ministero della Difesa 
				degli USA che ci sarebbe stato un contingente militare USA a 
				garantire gli impegni presi. L’accordo fu firmato il 19 agosto. 
				Il 20 agosto, alla vigilia dell’imbarco 
				dei primi miliziani palestinesi, che cominciarono a evacuare la 
				città, venne pubblicata negli USA la quarta clausola  
				dell’accordo per la partenza dell’OLP, che così recita: 
				
				<< I Palestinesi non 
				combattenti, rispettosi della legge, che siano rimasti a Beirut, 
				ivi compresi le famiglie di coloro che hanno abbandonato la 
				città, saranno sottoposti alle leggi e alle norme libanesi. Il 
				governo del Libano e gli Stati Uniti forniranno adeguate 
				garanzie di sicurezza... Gli USA forniranno le loro garanzie in 
				base alle assicurazioni ricevute dai gruppi libanesi con cui 
				sano stati in contatto>> 
				
				Yasser Arafat, preoccupandosi lo stesso per la 
				sorte dei profughi palestinesi, insisté sull’invio di una forza 
				multinazionale che garantisse l’ordine. La richiesta ufficiale 
				d’intervento di una forza multinazionale d’interposizione venne 
				consegnata il 19 agosto 1982 dal ministro degli esteri libanese
				Fu’ad Butros 
				agli ambasciatori di Stati Uniti, Italia e 
				Francia. Il piano, fatto accettare dal mediatore USA Philip 
				Habib ai libanesi, palestinesi e israeliani prevedeva 
				l’intervento di 800 soldati statunitensi, 800 francesi e 400 
				italiani per garantire l’ordine durante il ritiro delle forze 
				dell’OLP da Beirut. Il mandato della forza multinazionale era di 
				un mese, dal 21 agosto al 21 settembre, avrebbe potuto essere 
				rinnovato su richiesta dei libanesi in caso di necessità. 
				Tutti i combattenti palestinesi sarebbero 
				dovuti partire entro il 4 settembre, e in seguito la forza 
				multinazionale avrebbe collaborato con l’esercito libanese per 
				portare una sicurezza durevole in tutta la zona delle 
				operazioni. Il 21 agosto arrivò a Beirut il primo contingente 
				internazionale mandato dai francesi e nel giro dei due giorni 
				successivi, anche i soldati italiani e americani presero 
				posizione nella città. A questo punto, Arafat acconsentì ad 
				abbandonare Beirut insieme ai suoi 15.000 guerriglieri. 
				La situazione precipita. 
				Il primo giorno di settembre, 
				l’evacuazione dell’OLP dal Libano fu dichiarata conclusa. Due 
				giorni dopo, le armate israeliane avanzarono e circondarono i 
				campi profughi palestinesi, venendo meno al patto siglato con 
				gli eserciti cosiddetti “supervisori”, che però non fecero nulla 
				per fermarle. Caspar 
				Weinberger, segretario alla difesa americana, ordinò ai 
				marines di abbandonare Beirut il 3 settembre - 
				Esattamente lo 
				stesso giorno le milizie cristiano-falangiste, alleate 
				degli israeliani, presero posizione nel quartiere di
				Bir Hassan, ai 
				margini di Sabra e Shatila. La partenza degli statunitensi 
				comportò automaticamente quella dei francesi e degli italiani. 
				Il 
				
				10 settembre (su wikipedia 
				hanno scritto termine missione il 12 settembre), gli ultimi 
				soldati partirono da Beirut, 11 giorni prima di quanto sarebbe 
				dovuto accadere. Il giorno dopo, l’allora Ministro della Difesa
				
				Ariel Sharon 
				contestò la partenza di 2000 guerriglieri dell’OLP rimasti in 
				territorio libanese; i palestinesi negarono il fatto. 
				Il premier israeliano
				Menachem Begin 
				invitò il neo-presidente Gemayel a Nahariya per fargli 
				firmare un trattato di pace con Israele, anche se alcune fonti 
				sostengono che Begin chiese a Gemayel di permettere la presenza 
				delle truppe israeliane nel sud del Libano, con a capo
				Sa’d Haddad, 
				ex capo dell’Esercito del Sud-Libano; a Gemayel fu anche chiesto 
				di dare la caccia ai 2000 guerriglieri palestinesi la cui 
				presenza era stata denunciata da Sharon. Gemayel, anche a causa 
				dei crescenti rapporti di alleanza con la Siria, rifiutò 
				e non firmò il trattato. 
				Il 14 settembre 1982, Gemayel fu ucciso 
				in un attentato organizzato dai servizi segreti siriani con 
				l’aiuto dei palestinesi. Il giorno seguente le truppe israeliane 
				invasero Beirut Ovest. Con quest’azione Israele ruppe l’accordo 
				con gli USA che prevedeva il divieto di entrare in Beirut Ovest, 
				gli accordi di pace con le forze musulmane intervenute a Beirut 
				e quelli con la Siria. Nei giorni successivi il premier Begin 
				definì l’azione come una contromisura per “proteggere i 
				rifugiati palestinesi da eventuali ritorsioni da parte dei 
				gruppi cristiani”, mentre pochi giorni dopo Sharon affermò al 
				parlamento che “l’attacco aveva lo scopo di distruggere 
				l’infrastruttura stabilita in Libano dai terroristi”. 
				
				
				Il massacro. 
				In cerca di vendetta per l’assassinio di 
				Gemayel e coordinandosi con le forze israeliane dislocate a 
				Beirut ovest, le milizie cristiano-falangiste di
				Elie Hobeika 
				alle 18:00 circa del 16 settembre 1982, entrano nei campi 
				profughi di Sabra e Shatila. Il giorno prima, l’esercito 
				israeliano aveva chiuso ermeticamente i campi profughi e messo 
				posti di osservazione sui tetti degli edifici vicini. Le milizie 
				cristiane lasciarono i campi profughi solo il 18 settembre. Il 
				numero esatto dei morti non è ancora chiaro. Il procuratore capo 
				dell’esercito libanese in un’indagine condotta sul massacro, 
				parlò di 460 morti, la stima dei servizi segreti israeliani 
				parlava invece di circa 700-800 morti. 
				David Lamb scrive sul quotidiano Los 
				Angeles Times del 23 settembre 1982: 
				<<Alle 
				16,00 di venerdì il massacro durava ormai da 19 ore. Gli 
				israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, 
				non avevano risposto al crepitio costante degli spari né alla 
				vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai 
				campi.>> 
				Elaine Carey scrive sul quotidiano 
				Daily Mail del 20 settembre 1982: 
				
				<<Nella mattinata di 
				sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse 
				rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il 
				campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto 
				strano, dal momento che il campo, quattro giorni, era brulicante 
				di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante
				della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e 
				giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra 
				israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia 
				di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue 
				freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore>> 
				
				Loren Jankins scrive sul quotidiano Washington Post 
				del 20 settembre 1982:  
				
				<<La scena nel campo di 
				Shatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato 
				mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due 
				donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa 
				di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa del 
				bambino. Oltre l’angolo, in un’altra strada, due ragazzine, 
				forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata 
				e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini 
				erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca 
				attraverso gli edifici vuoti – dove i palestinesi avevano 
				vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di 
				Israele nel 1948 – raccontava la propria storia di orrori. In 
				una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull’altro 
				mummificati in posizioni contorte e grottesche.>> 
				Testimonianza di Ellen Siegel, cittadina 
				ebrea americana, infermiera volontaria. 
				
				<<In cima all’edificio 
				soldati israeliani guardavano verso i campi con i binocoli. 
				Miliziani libanese arrivarono in una jeep e volevano portare via 
				un’assistente sanitaria norvegese. Ci rivolgemmo a un soldato 
				israeliano che disse ai miliziani di andare via. Infatti 
				partirono. Alle 11.30 circa gli israeliani ci condussero a 
				Beirut Ovest. Sedetti sul sedile anteriore di una jeep della 
				IDF. L’autista mi disse: <<Oggi è Rosh haShana. Vorrei 
				essere a casa con la mia famiglia. Credete che mi piaccia andare 
				porta a porta a vedere donne e bambini?>> Gli chiesi quante 
				persone avesse ucciso. Rispose che non era affar mio. Disse 
				anche che l’esercito libanese era impotente, erano stati a 
				Beirut per anni e non avevano fatto nulla, che Israele era 
				dovuta arrivare per fare tutto il lavoro.>> 
				
				
				Condanne del 
				massacro. 
				Il 16 dicembre 1982, 
				l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il 
				massacro, definendolo “un atto di genocidio” (risoluzione 
				37/123, sezione D). La definizione fu approvata con 123 voti 
				favorevoli, 22 astenuti e nessun contrario. Tuttavia, in sede di 
				voto, i rappresentanti di Canada e Singapore 
				espressero dubbi sull’utilizzo del termine “genocidio” rispetto 
				al caso in specie. 
				L’8 febbraio 1983, la
				Commissione Kahan 
				giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri 
				erano state le Falangi libanesi, sotto la guida di 
				Elie Menachem Begin (per aver sostanzialmente ignorato 
				quanto stava accadendo e non aver esercitato la dovuta pressione 
				sul Ministro della Difesa e sul Capo di Stato Maggiore affinché 
				intervenissero a fermare il massacro), del Ministro della Difesa
				Ariel Sharon (per aver gravemente sottovalutato le 
				conseguenze di un eventuale intervento falangista all’interno 
				dei campi profughi e per non aver ordinato le adeguate misure 
				per prevenire o ridimensionare il massacro), del Capo di Stato 
				Maggiore Rafael Eitan (per non aver ordinato le adeguate 
				misure per prevenire o ridimensionare il massacro) e di altri 
				ufficiali.  
				Nel giugno del 2001, 40 parenti delle 
				vittime del massacro denunciarono Sharon in una corte belga per
				crimini di guerra. Il caso portò a dure ripercussioni 
				nelle relazioni fra Belgio e Israele e fu fra le ragioni che 
				portò alla revisione della cosiddetta “legge sul genocidio” in 
				senso restrittivo. Il 24 settembre 2003, la Corte di Cassazione 
				del Belgio dichiarò il non luogo a procedere perché nessuno dei 
				ricorrenti aveva la nazionalità belga (condizione richiesta 
				dalla nuova versione della legge). 
				Elie Hobeika non fu mai processato 
				e lungo gli anni novanta fu più volte deputato e anche 
				ministro in vari Governi libanesi, avvicinandosi sempre più alla
				Siria. Morì il 24 gennaio 2002 in un attentato, dopo 
				essersi dichiarato disponibile a deporre nel processo belga a 
				Sharon e a chiarire le proprie responsabilità nel massacro: “Per 
				19 anni ho portato il peso di accuse mai dimostrate senza aver 
				l’opportunità di provare la mia innocenza”. 
				
				  
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